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giovedì 11 ottobre 2012

Il Nobel adulterato: la truffa del marchio rubato dagli economisti

di Alberto Capece

In tempi di crisi e di impoverimento si cercano ansiosamente risposte, vaticini, autorità alle quali appoggiarsi per intravedere la luce nel buio. E se l'oroscopo o tutto l'armamentario divinatorio della magia vengono in soccorso per le vicende private, sui media l'economista è divenuto il nuovo aruspice, lo sciamano che ritualizza le sue formule e le trasforma in nenia ipnotica per i lettori o gli ascoltatori.

Ci dovremmo chiedere come mai siamo stati sciocchi da credere alle loro blandizie, ad assopirci di fronte alla loro evidente quanto arrogante incapacità previsionale senza insospettirci della loro scienza, ma più siamo deboli, più soggiaciamo al fascino di chi segue le linee degli astri e incide graffiti nella caverna della notte: così l'economista quotidiano non mancherà nelle nostre letture. E diventerà un faro se non si tratta di un semplice sacerdote, ma addirittura di un cardinale che al posto del pastorale brandisce il Premio Nobel.
Peccato che quest'ultimo ammennicolo liturgico sia una sorta di truffa commerciale, una contraffazione che si fregia di un prestigio non suo, di una astuzia bancaria: il Nobel per l'economia infatti non esiste, è solo un premio conferito dalla Banca di Svezia la quale, per sfruttare il nome del massimo riconoscimento mondiale, lo chiamò Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel ben sapendo che a livello mediatico sarebbe stato abbreviato in Nobel e basta. Persino il nipote del magnate arricchitosi a dismisura con la dinamite e fondatore del premio, Peter Nobel, ha avuto parole durissime contro questa trovata, mentre in Svezia c'è chi ne chiede l'abolizione.

Ma la questione non si limita all'uso scorretto di un marchio, alla scritta Parmigiano su un formaggio del Wisconsin, il problema ha connotati decisamente più seri e coinvolge alla radice il sistema della conoscenza al tempo del liberismo: il riconoscimento passa sì, attraverso la Fondazione Nobel, ma ha poco a che vedere con l'Accademia delle scienze svedese che si occupa delle altre materie. E' invece una commissione di "esperti" scelti con criteri non ben definiti e suggeriti dalla stessa banca a presentare la rosa di nomi tra cui poi verrà decretato il vincitore. Ed è oltremodo chiaro che un premio dato da un istituto di credito finirà inevitabilmente per prediligere tesi, studi e personaggi che appoggiano le visioni finanziarie e bancarie.
Questo avverrebbe anche se per ipotesi non lo si volesse e crea un circolo vizioso della conoscenza: il premio Nobel conferisce prestigio e questo si traduce in posizioni accademiche, nel peso che acquistano le varie "scuole", in fondi a disposizione, in spazi sulle riviste più prestigiose, nell'accorrere degli ambiziosi sotto le loro bandiere e dunque nella creazione degli "esperti" che scelgono i futuri Nobel e di futuri Nobel stessi i quali finiranno per premiare le tesi che più piacciono alle banche. Non è certo un caso che il premio sia praticamente appannaggio della produzione del mondo anglosassone e degli Stati uniti in particolare con rarissime eccezioni riguardanti comunque l'Europa. E' come se il resto del mondo non esistesse: questo è uno dei meccanismi del pensiero unico che mentre il mondo si allarga materialmente restringe e umilia l'immaginazione, crea prigioni di idee precotte impedendo il diffondersi di pensieri diversi e di alternative.

Già nel campo scientifico vero e proprio questo effetto non manca e, unito alle necessità diplomatiche, suscita spesso polemiche. Ma nelle scienze sperimentali le bugie hanno le gambe corte e in ogni caso si tratta di campi complessi nei quali è difficile che si crei un effetto valanga di questo tipo. L'economia invece, così in bilico fra politica e interessi economici, divenuta ormai sociologia e antropologia dei ricchi, è forse l'ideale per il formarsi di un feedback esplosivo e pervasivo. Che è stato preso in castagna solo poche volte, anche se il ridicolo in cui sono incorsi due nobel per l'economia avrebbe dovuto metterci sull'avviso piuttosto che farci ridere: nel 1997 il premio andò ex aequo a Robert Merton e Myron Scholes i quali avevano messo a punto un "nuovo metodo per la valutazione dei derivati" sviluppando anche un modello matematico ad hoc. Qualche tempo prima del riconoscimento erano stati  chiamati a gestire un hedge found che si ispirava alle loro teorie, ma riuscirono a farlo fallire in maniera così disastrosa che dovette intervenire la Federal Reserve. Per loro fortuna il Nobel arrivò un anno prima del fattaccio, Ciò non impedisce però ad entrambi di essere docenti uno ad Harvard e l'altro a Stanford, insomma di essere riveriti maestri che seguiremmo con grande attenzione se dovessero scrivere qualcosa su come uscire dalla crisi. Perbacco lo dice un nobel per l'economia. Peccato che siano proprio loro gli aruspici di quelle illusioni, gli ideologi della lotta di classe rovesciata che fa previsioni utilizzando le nostre viscere.

No, quello che dicono lo dice in realtà la Banca di Svezia e per essa il sistema bancario e finanziario che si è  appropriato abusivamente di un marchio per vendere scienza adulterata, vino fatto con le polverine e spacciato come prodotto genuino. Basta mezzo bicchiere per ottundere e togliere lucidità: dopo il primo sorso si è disponibili a credere qualsiasi cosa. E ci fidiamo perché li vediamo sobri, mentre noi siamo come ubriachi: pronti ad essere derubati della speranza.



lunedì 1 ottobre 2012

Hobsbawn e il secolo infinito

di Alberto Capece

Non so se Erich Ostbaum, il cui nome fu storpiato ad Alessandria d'Egitto, dove nacque, nell'anglo-esotico Hobsbawn, avesse ragione a sostenere che il '900 sia stato un secolo breve. Anzi mi sento di contraddirlo apertamente proprio grazie a quanto ho imparato sui suoi libri e dico che siamo ancora in pieno Novecento, dentro un secolo lunghissimo che potremmo far cominciare anche molto prima dell'inizio della grande guerra.
Appartengo a una generazione che ha vissuto conflitti mondiali, ne ha sentito i racconti dalla viva voce dei protagonisti ma non è emotivamente portato a farne le porte Scee della storia recente. Però seguendo la tradizione azzarderei la data del 1898, anno in cui iniziò e si concluse nel giro di pochi mesi la guerra Ispano- Americana. Dentro quello scontro tra una Spagna giunta al fondo del barile dopo gli splendori del siglo de oro e gli Stati Uniti rampanti, ci sono tutte le stigmate di ciò che riconosciamo come contemporaneo.
La guerra per il possesso di Cuba fu suggerita e appoggiata in maniera determinante dalla stampa appartenente al magnate Hearst che evidentemente si aspettava un ritorno economico da una campagna nazionalistica; la miccia del conflitto fu l'esplosione della Uss Maine alla fonda nel porto dell'Havana che fu attribuita agli spagnoli, ma che invece fu dovuta a un incidente non si sa quanto voluto e meno; con la vittoria gli Usa misero le mani non solo sull'isola caraibica, ma anche sulle Filippine permettendo dunque di svolgere un ruolo determinante sul Pacifico e in Asia.

Dunque una credibile ouverture del secolo, tanto più che proprio in quel giro i anni andavano maturando le rivoluzioni scientifiche della relatività e della teoria quantistica, ma soprattutto crescevano i movimenti sindacali e si preparava il terreno della rivoluzione d'ottobre. Il marxismo classico dal 1917 in poi - e a mio parere senza troppo successo-  si dedicò a capire come mai la rivoluzione proletaria fosse divampata dove non avrebbe dovuto e perché invece fosse fallita laddove esistevano le condizioni "oggettive" per il suo successo.
Però intorno alla fine del'Ottocento il dibattito economico, ma anche politico era più ampio. Mentre i fanti di marina americani sbarcavano a Cuba si consumava la vittoria della teoria neoclassica dell'economia, madre diretta del liberismo attuale, sulla Scuola storica tedesca la quale sosteneva che si sarebbe dovuta abbandonare l'astrattezza sospetta delle cosiddette leggi economiche, una creazione formale dei marginalisti, in favore di un approccio basato sul contesto storico e sociologico. Una sconfitta che ha avuto conseguenze che ci portiamo dietro ancora oggi assieme alla convinzione che esistano leggi ineluttabili e non scelte di civiltà.

Potremmo aggiungere anche che in quegli anni l'Europa sebbene divisa da furiosi nazionalismi (che dopo le guerre di indipendenza italiane, quelle tra Austria e Prussia e infine il conflitto franco-tedesco si sfogavano soprattutto in contese coloniali), cominciò a godere di una straordinaria integrazione economica che tuttavia non riuscì a scongiurare l'incendio della grande guerra. Anzi a questo proposito potremmo retrodatare ancora il nostro Novecento e vedere la fine del secolo precedente nella Comune di Parigi del 1871 dove si estinse definitivamente la lotta di popolo nell'accezione illuministica e derivata dalla presa della Bastiglia.

E' abbastanza evidente che da quel fine ottocento, anno più anno meno, i fondamentali del mondo non sono poi molto cambiati, anche se 70 anni di lotta tra comunismo e capitalismo, un po' ci confondono: la teoria neoclassica dell'economia è ancora quella dominante, la relatività e la meccanica quantistica sono ancora alla base della nostra fisica, l'idea di rivoluzione è ancora strettamente collegata a quella di lotta di classe, gli Usa sono ancora la forza preponderante nelle contese geopolitiche e ancora si usano stratagemmi, come quelli della Uss Maine per fare guerre, come l'Irak dimostra superbamente, il possesso dei media è ancora più determinante per dirigere opinione pubblica e politica. In più le tesi razziste che proprio nell'ultimo decennio dell'Ottocento furono "sistematizzate" nei vari deliranti e irreali filoni in cui si dividono, fanno ancora una straordinaria presa, umanamente repellente, ma perdipiù affette da un patetico anacronismo.

Tuttavia abbiamo consapevolezza che proprio oggi, mentre stiamo vivendo, questo mondo viene messo in discussione: i teoremi della crescita infinita sono sul punto di essere spazzati via con tutti i loro correlati, sempre più siamo consapevoli che ci occorre una nuova fisica che spieghi ciò che non riusciamo a più a comprendere bene dentro i vecchi paradigmi, si comincia finalmente a riconoscere che l'economia  deve essere per l'uomo e non viceversa, mentre cresce la consapevolezza che essa è una particolare branca della sociologia e non una scienza "dura" o dialettica che può essere brandita dal potere, i media sono stati investiti dalla rivoluzione digitale che non solo permette contatti prima inimmaginabili, ma rende più orizzontale l'informazione, gli Stati uniti e l'Occidente non sono più i padroni assoluti del mondo e anzi vanno perdendo rapidamente la loro centralità, mentre le nostre società si fanno sempre più multietniche, come del resto era nel mondo antico. E infine le piazze che si riempiono ogni giorno in qualche parte d'Europa, rassomigliano più alla variegata folla della Comune che non a quella che prese il Palazzo d'inverno. E' proprio in questi anni insomma che il lunghissimo Novecento sta davvero finendo. E finirà se noi lo vogliamo: per una volta, con la lucidità che ci ha regalato Ostbaum, possiamo decidere di uscire dall'agonia e decidere noi la fine di un secolo.