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martedì 11 settembre 2012

Allende e oltre


di Massimo Pizzoglio

E' un periodo che ricordo bene, quegli anni settanta a Torino.
Ero adolescente e scoprivo la politica, l'impegno sociale, le contraddizioni di una città che Valletta aveva deciso molti anni prima dovesse essere solo operaia, laboriosa, grigia e la sera a letto presto che qui si lavora. E che invece era viva, sotto quel grigio, contro la scarsità dei luoghi di ritrovo, gli orari dei locali, la nebbia e il freddo invernali, il deserto ad agosto.
Ci si trovava spesso a casa nostra, che era grande e con un enorme frigorifero, grazie a mia sorella, di tre anni più vecchia, la cui trascinante esuberanza era una calamita per molti interessantissimi personaggi.

Tra loro arrivarono, alla spicciolata, alcuni studenti sudamericani, di vari paesi.
I primi erano tutti nipoti di piemontesi emigrati quando la terra promessa non era questa, ma quella oltreoceano, e stavano un poco in disparte, noi pensavamo per i problemi di lingua, che un po' conoscevano in famiglia e un po' è simile alla nostra, ma non così agevole.
Pian piano il numero aumentò e le origini erano adesso più varie, ma la riservatezza, che avrebbe dovuto allentarsi con la conoscenza e l'allargamento dei "conterranei" non diminuì, tanto che pensammo un po' tutti che fosse endemica.
Dei colpi di stato, delle dittature, di politica, di guerre nel mondo si parlava tantissimo, ma solo alcuni di loro si avventuravano in commenti aperti.
Poi, ma erano passati mesi, da un paio di amici, quali erano diventati nel frattempo, scoprimmo quale era il motivo: le spie.

Già, perchè uno degli aspetti più trascurati della vita degli esuli politici e insieme uno dei più odiosi delle dittature è proprio la delazione, il sospetto, l'insicurezza portata a metodo di vita.
La punizione a distanza di chi è riuscito a sfuggire e non ha ancora il peso politico degli oppositori conclamati è la paura, per la propria vita in primis e per quella dei propri cari che sono rimasti in patria.
Il ricatto, esplicito o serpeggiante, del silenzio e dell'inazione, del rimanere ingessati con il cuore che scoppia di rabbia e la mente che chiude le porte alla confidenza con chiunque: di nessuno puoi essere sicuro se sia amico o traditore.

In quegli anni, in alcuni luoghi (e voglio pensare ci fosse anche la nostra casa) ci si esponeva un po' di più, ma certe confidenze politiche e certi volti decontratti e sorridenti le ho sentite e li ho visti solo molti anni dopo.
Le canzoni erano un bel grimaldello, uno sfogo importante, un'occasione per dire cose che non segnassero uno sforamento aperto, ma che facessero sgorgare un po' di rabbia repressa.: sapevamo a memoria tutti i dischi degli Inti Illimani, della famiglia Parra e di Victor Jara erano un po' più difficili da trovare, ma ce li scambiavamo, facevamo le "cassette" pirata.

Di quegli amici, quasi tutti sono tornati nei loro paesi e con quelli rimasti ci si è persi di vista, hanno figli e, ormai, nipoti; nelle foto di famiglia hanno dei vuoti creati in quegli anni e, forse, di quell'atmosfera che io percepivo allora serbano un ricordo sopito, ma questi sono i miei ricordi di oggi, nell'undici settembre che non manco di celebrare con rabbia e commozione da quasi quarant'anni.
Di quel colpo di stato, ma anche dei successivi che dilagarono in tutta la "dispensa degli Stati Uniti" dell'America australe e che, come dimostra il Paraguay, forse non sono ancora finiti.

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