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sabato 18 agosto 2012

La storia sono loro: da Matteotti all'Ilva il lungo filo di corruzione (Seconda puntata)


di Anna Lombroso

È difficile misurarsi sul campo della casualità storica. Ma è meno arduo identificare le costanti che caratterizzano la nostra storia, che segnano l’autobiografia nazionale, un esercizio al quale si è dedicata la storiografia che le colloca in grandi aree, le stesse permanenti e potenti da 150 anni: una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole, una corruzioni troppo presente in un tessuto politico troppo pervaso dal mercato, una politica troppo connotata dal personalismo, tale da indurre leadership autoritarie e una ricorrenza delle forme dittatoriali, tutti fenomeni che hanno contribuito all’innalzamento della tolleranza per l’irrisione delle regole, per le scorciatoie e licenze, ed infine per l’illegalità, che percorre e innerva tutto il tessuto della società.

Anche a non voler trattare queste componenti come tare, ineluttabili e antropologiche, c’è da riflettere sulla loro permanenza, il loro implacabile interagire, il periodico ripresentarsi delle loro forme più virulente soprattutto nei momenti di maggior disordine, di vulnerabilità istituzionale, di crisi economica.
Una delle sfide più formidabili che l’Italia si trovò ad affrontare nel 1861, fu quella di separare il modo di operare dello stato da quello della società che si trovava a governare, soprattutto per quanto riguardava la lotta al clientelismo e alla corruzione ereditati da ben prima del sistema borbonico, per via di quel rapporto aberrante tra patrono e cliente, che stabilivo un patto formale in cui il secondo giurava fedeltà al primo ricevendone in cambio garanzie giuridiche ed elargizioni discrezionali ed arbitrarie. Che nuovo stato italiano non abbia condotto quella battaglia, rappresenta lo smacco forse più atroce del Risorgimento: che dietro al sipario delle regole formali dell’Italia liberale, manteneva il sistema dei vecchi rapporti patrono-cliente e dei legami familistici. Ben lungi dall’esercitare una funzione pedagogica per la creazione nel tempo di prassi di etica pubblica, lo stato, una monarchia corrotta e inetta, erano plasmati dai rapporti sociali tradizionali.
Si è consolidata quella socializzazione di massa alla pratica dell’illegalità, filtrata attraverso il familismo e il clientelismo, che da allora, culminando nel fascismo e fino alla nostra contemporaneità, ha alimentato il sistema della corruzione, nutrito alleanze opache tra politica e impresa. Anche in virtù del carattere del capitalismo italiano, caratterizzato dal suo uso della finanza (bancaria e delle imprese) per puri scopi di potere e corruzione, dalla natura consociativa dei rapporti fra imprese, anche concorrenti, che finisce per far prevalere gli aspetti di potere rispetto a quelli astrattamente di mercato e dalla vocazione al parassitismo, alla pratica del ricorso agli aiuti statali, non solo sotto forma di incentivi e fondi a perdere, ma anche grazie a un quadro legislativo protezionistico del profitto.

Prendono forma allora, i problemi di oggi, che affondano le loro radici in un passato in cui
non si è riusciti ad individuare soluzioni degne di un paese democratico, quando non si è riusciti a produrre gli anticorpi necessari per debellare i fenomeni più patologici, con l’effetto di ostacolare ad un tempo lo sviluppo economico e il normale gioco democratico.

Lo conferma succedersi seriale di scandali, per parlare solo di quelli affiorati, tutti segnati da fenomeni di corruzione e di pesante coinvolgimento dei governi e della classe politica. La “Regia dei Tabacchi”, il caso denunciato da Matteotti con le losche alleanze commerciali strette dai Savoia e poi i costumi rapaci della nuova classe dirigente che sapeva di non dover più temere gli attacchi di una opposizione che non esisteva più, quella dei "predoni in orbace" investiti da un potere assoluto, i giri milionari di Edda Ciano o quelli del podestà di Milano, guerre per alimentare il commercio delle armi e commercio di armi che nutre la guerra: iniziava allora quella pericolosa indifferenza del cittadino verso la gestione del potere, considerata magari con disprezzo, ma non combattuta, che resta a tutt'oggi una delle tare della nostra società.

E, a seguire – e certo ne dimenticherò qualcuno - dall’oro di Dongo in poi nella fase definita felicemente da qualcuno la cinismocrazia, i fasti dell’Eni, le acrobazia di Scelba, e il caso Sindona (1974), proseguendo con i fondi neri che coinvolgono grandi imprese italiane (petrolieri e fondi neri dei primi anni di vita di Montedison); Eni‐Petromin (1980); il Banco Ambrosiano e lo Ior (1982); le losche trame di affari degli affiliati alla P2 (in particolare le vicende del Corriere della Sera); la Sir e le sue scandalose sentenze che risarciscono gli eredi del fallito, frutto di corruzione dei giudici come quella sul lodo Mondadori; Enimont (la madre di tutte le tangenti); il crollo del gruppo Ferruzzi e di Montedison (1993); il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; e infine negli anni più recenti Cirio (2003); Parmalat (2004); le scalate bancarie con copiose manipolazioni di mercato (2005); gli immobiliaristi di oggi, e, a scandire implacabilmente, la Fiat, gli aiuti provvidenziali e le tangenti come metodo insostituibile di negoziato: in tutto questo ripresentarsi di casi di malaffare, l’ombra di poteri più o meno occulti, una stampa a verità intermittente e manovrata, un’autorità giudiziaria altalenante tra trasparenza e copertura di potenti, presenze costanti di burattinai e assenze colpevoli di una opinione pubblica indulgente quando non connivente.

E lo scandalo dell’evasione amorevolmente coperta, denunciata con proclami e sostenuta con misure estemporanee di condono, scudo, con l’avvilimento degli organismi di controllo, con la promulgazioni di leggi speciali al servizio dei trasgressori, la forma più sublime e sofisticata di corruzione cui si prestano e della quale godono i partiti. Come ebbe a dire Luciano Cafagna nella sua “grande slavina”, “da una ipotetica formula di comportamento, nella quale si poteva ancora sperare, secondo cui la politica cercasse di procurarsi capitali per produrre migliore politica, si è passati a una formula di comportamento, secondo la quale il capitale raccolto dalla politica pare servire piuttosto a poter fare «più politica», sì, ma finalizzata pressoché unicamente a raccogliere «più capitale»…”, provocando meccanismi ingovernabili di destabilizzazione del sistema, della destrutturazione del mercato elettorale, di erosione della partecipazione e della coesione sociale, di impoverimento della democrazia fino a una barbarica rivolta silenziosa contro uno Stato debole coi forti e forte coi deboli, che chiede molto e che nel redistribuire sperpera quel che ha raccolto.

Quello che in Francia venne chiamato centralismo debole, qui potrebbe essere stata una unità debole, fino ad essere uno Stato debole, o forse un paese paradossalmente senza Stato, oggi severamente annichilito, pur avendo una Costituzione forte. Ma con un eccesso di burocrazie e un difetto di efficienza, leggi che dettano deroghe e non regole, vertici amministrativi scelti per appartenenza e non per competenza, standard di governo alternanti a fronte di un primato dell’emergenza e della straordinarietà, tutti fattori che promuovono soluzioni autoritarie, “provvidenzialiste”, miracolistiche.
L’impeto morale che spinse al discorso “suicida” Giacomo Matteotti suonò come un grido contro una indifferenza che era durata troppo a lungo e che invece era appena cominciata. Servirebbe qualche grido oggi che assistiamo indifferentemente al nostro suicidio morale, fatto tra l’altro di incapacità a fare esperienza della storia come della soverchiante inclinazione a fare dell’accettazione una virtù. Anche l’acquiescenza a questo suicidio istigato, alla dissipazione del nostro patrimonio di civiltà e bellezza, all’annichilimento dei diritti, alla sistematica e scriteriata liquidazione della legalità, al primato dell’abuso e del sopruso, in un infame relazione di scambio e di rapina, di intimidazione e elargizione, che incrementa disuguaglianze e privilegi, irregolarità e ingiustizia.

Abbiamo bisogno di sentire il grido comune, di noi tutti, per il crimine che stanno commettendo ai nostri danni, ai danni di una intera nazione, di un popolo e della sua cittadinanza, dei quali diventiamo correi se lo subiamo, se come scrive Canetti l’istigazione dei conquistatori ha l’effetto di indurre auto inganno, accecamento, rimozione, ignara mimesi del carnefice, inconsapevolezza della tragedia, autodestituzione della coscienza personale. Rinnoviamo in noi, con quel grido, la misura della nostra volontà, della nostra responsabilità, della felicità di riprenderci la vita, ardua, impervia e così bella.

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