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lunedì 23 luglio 2012

Tornano le false vacanze: i cortili dei vergognosi


di Anna Lombroso

Si racconta che  nelle favelas del nord del Brasile, le madri, la sera, riempiano d’acqua le pentole sul fuoco mettendoci dentro delle pietre. E ai loro figli che piangono per la fame, dicono, “abbi pazienza, aspetta tra un po’ la cena sarà pronta”, sperando che nell’attesa i ragazzini si addormentino.
Certe domeniche dal grande cortile sul quale si affaccia la finestra della cucina, non sale una voce, salvo il ruggito lontano della città. Le case sembrano deserte, le persiane accostate, solo il ronzio dei condizionatori fa sospettare presenze silenziose, fa pensare che dietro alle tende qualcuno guardi fuori, spii gli appartamenti vicini in attesa della sera, quando le finestre si aprono, riprendono il vociare, lo scoppio degli spari in Siria che riecheggia dai televisori, le lingue sconosciute delle due badanti che parlano in lingue sconosciute al cellulare, affacciate ai davanzali salutandosi con la mano. I telegiornali fanno vedere spiagge vuote, ombrelloni chiusi, strade deserte, ma i parcheggi sotto casa sono fitti di auto: sarà come nei vecchi film anni ’50, con Totò e Peppino che chiudono la famiglia a casa, nascosta dietro le “gelosie” per non far parlare la gente, per non far sapere agli altri che non possono permettersi la villeggiatura nemmeno quella dei De Tappetti, con l’utilitaria carica di fagotti, o in treno per andare al paesello con il cartoccio della frittata e le valige con lo spago.

C’è un bizzarro spostamento in là dei confini e dei limiti del senso comune se ci si vergogna della povertà più che degli abusi, delle licenze alle regole, della trasgressione delle leggi, della dignità che ci si è fatti strappare, delle umiliazioni sopportate. Se si ha pudore delle restrizioni che ci vengono imposte più che dell’accondiscendenza a subirle. Se si prova imbarazzo per il venir meno dell’impegno a consumare, ad accumulare beni inutili perdendo di vista il bene, a dissipare risorse anche quelle naturali se la legge di natura della modernità è l’illimitatezza cieca, la hýbris tracotante e suicida. E se rimuove la colpa collettiva di assoggettarsi come fossimo paralizzati a un ordine mondiale omicida che ai morti di fame e epidemie – molti più di 100 mila al giorno - aggiunge la condanna alla miseria di interi popoli, impoverendo lo stato sociale, la cultura, il lavoro, la speranza del futuro. Se i “cosmocrati” hanno aperto sempre nuovi cantieri per superare la legge di Pareto e ben più dell'80% delle ricchezze è in mano a molto meno del 20% della popolazione, in una belligeranza che non è più una patologia, ma la normalità, non è più l’eclissi della ragione, ma è la ragione d’essere del loro impero, che ci imputa lo spread a 530, a un tempo per la nostra intemperanza o per scarsa inclinazione al sacrifico, chè comunque è colpa nostra, dei poveri.

Eh si, i poveri sono aumentati, a causa del declino economico europeo, ma soprattutto dell'inversione di tendenza delle politiche pubbliche a partire dagli anni Ottanta: i dati ufficiali comunitari - 36 milioni di poveri nel 1975, 44 nel 1985, 57 nel 1993, 152 nel 2010 - testimonia la crescente gravità del problema della povertà anche in paesi in cui il reddito pro capite è in questo periodo sostanzialmente aumentato. Ciò non stupisce, dato che nelle statistiche europee la soglia della povertà è collocata ad un reddito inferiore del 50% a quello medio del paese di residenza, secondo un criterio relativo e non assoluto.
In effetti si potrebbe dire che questi dati, più che della povertà, considerata come indigenza e difficoltà ad assicurare a sé o alla propria famiglia la sopravvivenza, sono un indicatore della persistenze o dell'aggravarsi delle diseguaglianze economiche e sociali, di una polarizzazione sociale sempre più accentuata.

In questa età regressiva siamo tornati al 1495, allora ebbe origine la Compagnia dei Poveri vergognosi a Bologna, presso il Convento di S. Domenico, per iniziativa di alcuni cittadini di buona famiglia, con lo scopo dì assistere quei poveri "alli quali era vergogna il mendicare, per essere caduti in povertà" da uno stato di precedente agiatezza.
È che anche oggi la distinzione fra impoverimento reale e percepito, perde gran parte del suo significato: chi si sente povero “è” povero e questo sentimento sfiora e investe settori sempre più ampi dei quadri intermedi del settore privato e ancor più del pubblico impiego.

Questo ceto medio una volta borghese oggi quasi proletario, in lotta per conservare il proprio status, angosciato dal timore del declassamento, ricorda il "povero vergognoso", chi in origine nobile o più che benestante, a causa della sfortuna o della propria incapacità non era più in grado di mantenere un livello di vita confacente al proprio status. Per loro allora e oggi i disagi materiali sono resi più acerbi dalla vergogna e dalla perdita: dalla vergogna per il declassamento, che impedisce di fare appello all'altrui misericordia, insomma di mendicare - che è appunto "vergognoso", dalla memoria di quello che era, dalla perdita di importanza, di “posizione” e in sostanza di identità. E che colpevolizza, come se essere poveri fosse la legittima e meritata condanna per incapacità e inadeguatezza a un modello sociale, ambizioso, rampante, spregiudicato.

Come nell’operosa Bologna di fine Quattrocento, come nel film di Totò, è il tempo dei decaduti: loro che fanno di tutto per nascondere alla società la loro vergogna, ma anche la società che fa di tutto per nascondere il "povero vergognoso" perché la sua stessa esistenza confuta e sconfessa l'ideologia sociale dominante. E’ quella smentita che ha mutato il disprezzo in odioso accanimento, perché svergogna il pensiero forte che riconosce nella ricchezza economica, il principale, seppure non l'unico, parametro di definizione della gerarchia sociale attraverso il profitto conquistato a costo di arrivismo, prevaricazione, cinismo, illegalità.
I poveri si vergognano perché il declassamento implica anche la perdita di legami sociali e di autostima, il pensiero dominante si vergogna di loro e li vuole remoti, estranei, separati, paria come un inquietante terzo mondo interno. Ma stavolta non possiamo compiangere il loro naufragio guardandolo dalla spiaggia delle certezze, compiacendoci di essere scampati. Questo è il nostro naufragio, forse la zattera è la solidarietà e lo stare insieme. La salvezza della dignità è non sopportare più vergogna e umiliazione.

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