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giovedì 3 maggio 2012

Riprendiamoci la città


di Anna Lombroso

In questi giorni si parlato molto e in modo tragicamente commemorativo dei luoghi del lavoro, fabbriche abbandonate, edifici fisici e morali smantellati, uffici impolverati quanto certi principi, in paesi nei quali a non esserci più è proprio il lavoro, con le sue conquiste, con i suoi valori.
In questa guerra di annientamento condotta da chi vuole il primato dello scambio immateriale, del mercato più rapace, quello che terra di conquista la nostra speranza e di noi una merce svalutata da far circolare a prezzo scontato, ideali e diritti si potrebbero sopprimere perchè non sarebbero riconducibili a bisogni collettivi, consapevoli e condivisi, e soprattutto perché non ci sarebbe una classe, un partito, una moltitudine a rivendicarli, rappresentarli, difenderli. La lotta di classe sarebbe morta perché non ci sono più i contendenti, ridotta a uno stereotipo frusto e arcaico, un vecchiume, un residuato della rivoluzione industriale, in modo da dare legittimità alla cancellazione di quello che si è conquistato, in assenza di manifestazioni di massa attribuibili a un “ceto” o partiti di peso elettorale o parlamentare che per statuto o programma li testimonino e difendano e nemmeno dei “teatri” dove la protesta, la critica, la rivendicazione si rappresentano esemplarmente.

Eppure il luogo c’è, ben oltre la fabbrica svuotata e penalizzata, i call center avviliti e sconfitti, le sezioni scomparse o disilluse, i sindacati ricattati. È la città, l’abitare, la quantità e qualità dei suoi servizi, la città bene comune sempre meno riconosciuto anche da chi si interroga sul volto e i propositi di nuovi soggetti politici, come se fosse un tema aggiuntivo al lavoro un optional addirittura trascurabile, e non il luogo strategico e cruciale del conflitto sociale. E quindi della politica.
Qualche giorno fa, qui, (le grandi baraccopoli del futuro) ho cercato di raccontare la degenerazione aberrante delle scienze urbane in dottrine di ordine pubblico, alla ricerca di strumenti e modalità di controllo sociale laddove divampano sempre più disubbidienza, malessere, diffidenza, scontro, paura gli uni degli altri. Quando migrazioni, impoverimento dei molti a fronte di ricchezze sempre più inclusive e esclusive, ridisegnano il tessuto delle metropoli. Se Katrina e il suo passaggio distruttivo, ha cancellato i quartieri poveri, per ricreare magicamente e artificialmente una New Orleans con nuovi cittadini, wasp, puliti e ordinati come la nuova città. Quando alla topografia tradizionale di quartieri centrali e vecchie periferie, tra enclaves sempre più ristrette e consolidate fatiscenze, sorgono insediamenti informali, accozzaglie la cui provvisorietà minaccia continuità, quando accanto alle ville opulente sorgono come funghi velenosi gli slum, quando Los Angeles è diventata la capitale degli homeless del Primo Mondo, con più di centomila senzatetto e nelle nostre capitali a qualche metro fisico e distanze sociali siderali sorgono quartieri di carcasse d’auto, palazzi sventrati e senza vetri alle finestre, baracche e un’urbanistica estemporanea di lamiere e cartoni.
“Nulla è triste come questi immensi spostamenti di pietre per mano del dispotismo, al di fuori della spontaneità sociale”, lo scriveva negli ultimi anni dell’800 Louise-Auguste Blanqui nel denunciare la politica urbana del Barone Haussmann].

Non ci aspetta nessuna Bella Epoque e auguriamoci che non ci sorprendano due conflitti mondiali anche se quella in corso è decisamente una guerra. Con eserciti che infuocano le banlieues e Londra, le città del Nord Africa e tanti tanti posti per via di quella “guerra ai poveri” nella quale il proletariato e anche il sottoproletariato, sempre più vasti numericamente e morfologicamente, reindossano i panni della “classe pericolosa” nel suo manifestare e manifestarsi, stando stesa in un cartone, riempiendo le piazze, pulendo parabrezza, la cui forza-lavoro ridondante e frustrata rischia di diventare inesorabilmente disubbidienza, anomalia, esclusione e devianza. E la semplice presenza di una moltitudine scontenta e “eccedentaria” è divenuta un autentico incubo vivente per i pochi opulenti e per i ceti dirigenti. Mai come dopo la caduta di quello di Berlino si sono innalzati muri, potenziate polizie private, rese più sofisticate videosorveglianze, alimentate emergenze cui rispondere con diffuse repressioni intorno alle quali cresce il consenso dei troppi impauriti.

Si la città è il territorio del conflitto e della consapevolezza che circola sui temi della sanità e della giustizia, dell’immigrazione e del lavoro, dell’istruzione e delle carceri, dell’ambiente e dei beni culturali, della “proprietà” erosa per i molti e protetta per i pochi. Molte vertenze sono scoppiate ogni città e regione per contestare e scelte della dissennata politica territoriale del neoliberismo straccione e proporre indirizzi alternativi. I temi della difesa dei beni comuni e della vivibilità minacciata della deregulation, della riduzione dei rischi all’integrità fisica del territorio che frana ad ogni pioggia e a ogni passaggio di grande opera pubblica sono i terreni di una presa di coscienza dei diritti di tutti e non solo di quelli legati al lavoro, in una società contrassegnata dall’indefinita crescita quantitativa e dalla combinazione tossica di affarismo, personalizzazione e privatizzazione dell’interesse e dei beni generali, corruzione e infiltrazione criminale. La legislazione urbanistica è stata smantellata, le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori, fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. Oggi speculazione parassitaria dimostra di avere imposto il proprio dominio:
la cultura delle regole, un premier ha inserito nel suo programma il «padroni a casa propria» slogan che ha dato a leggi – mai contrastate negli anni dei governi di centro-sinistra – che hanno messo in crisi il governo pubblico del territorio. E che l’attuale governo riconferma con proterva ottusità, consolidando l’ipotesi di opere e infrastrutture al servizio del saccheggio e dell’immobilismo produttivo, con un asservimento ideologico a una crescita che oltre a lasciare macerie e svuotare le casse delle amministrazioni pubbliche, erodendo il welfare urbano, fa dell’abitare e della casa un privilegio dedicato a un ceto sempre più circoscritto.

Servono nuovi princìpi normativi: se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è ora di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate.
Il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, mediante le forme della partecipazione attiva che ci dobbiamo riprendere, ne sono i custodi e i garanti ché i beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto della proprietà privata.
Una telefonata venuta da fuori ha chiamato a capo del governo un “tecnico” che ha chiamato altri tecnici, che per decidere della moralizzazione della cosa pubblica hanno chiamato altri tecnici ancora che chiamano noi a denunciare le aree di crisi.
Io comincerei nelle città a contribuire alla conoscenza e alla benefica accumulazione di una massa critica di informazioni di servizio su quanto è avvenuto: abitazioni costruite e invendute, aree industriali dismesse, aree urbane prive delle più elementari opere di urbanizzazione. Per guardarsi intorno, capire, agire, riprendersi la città.

1 commento:

  1. Guardatevi la classifica dei politici di Politicount
    http://www.politicount.it/

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