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lunedì 28 maggio 2012

L'impero del rifiuto


di Anna Lombroso

Pare che della civiltà degli eccessi, pare che dell’età dell’opulenza ci sia rimasta come memoria, minaccia e monito una montagna di rifiuti. Proprio come il debito, pesa sulle nostre spalle adulte e anche su quelle dei neonati e perfino su quelle degli innocenti che stanno ancora nella mente di giove. Uniscono l’Europa, per una volta tutti uguali con almeno 513 chili a testa, gli italiani anche un po’ di più, 540 kg malgrado la diminuzione dei consumi.
Li odiamo: sono l'altra faccia della civiltà industrializzata, un vero e proprio mondo, complesso e simmetrico rispetto a quello delle merci, del quale rappresentano il lato oscuro. Sono l’esito fisiologico della progressiva produttività, della quale esemplarmente ricordano il destino effimero. Ne temiamo il contagio, forse perché rammentano la caducità, il deterioramento, la degenerazione, evocano il tabù che rifuggiamo e vogliamo rimuovere. Non vogliamo sapere come una risorsa, entità viventi si sono mutati in articoli e prodotti ordinatamente allineati sugli scaffali, non vogliamo conoscere la sequenza di fatiche e vite sofferte che quelle lavorazioni hanno comportato, non vogliamo preoccuparci di dove poi ne finiscano gli esuberanti e sgargianti involucri, gli avanzi che imputridiscono: quello che resta dei consumi lo rifiutiamo, in una parabola della vita e delle relazioni con noi stessi e gli altri, paradigmatica e vergognosa.

Insieme ai rifiuti se ne va una parte di noi, quel che rimane dei desideri, delle voglie, degli appetiti, di quel che indossiamo, usiamo, mangiamo, che ci sembrava potesse cambiarci l’aspetto, appagarci, migliorare l’esistenza. Non ci piace l’inevitabile condanna a guardare certi brandelli nel nostro immaginario e delle nostri vite trasformarsi in poltiglia maleodorante, evaporare in diossina: forse questo spiega le mobilitazioni potenti e radicali – peraltro sacrosante – contro discariche e inceneritori, a fronte di una più paciosa acquiescenza rispetto a opere faraoniche, con un formidabile impatto. E ancora di più decifra la riluttanza a effettuare la raccolta differenziata, accolta malvolentieri come una punizione, che ci obbliga a tenerci in casa gli scarti mentre vorremmo disfarcene spensieratamente, tanto che tiriamo giù il finestrino e svuotiamo il posacenere in strada, li lasciamo sull’Everest, li abbandoniamo sulle vie stellari percorse dei cosmonauti. Diventano oggetto di delicati eufemismi, lo spazzino? è un operatore ecologico, gli sporcaccioni? utenti da persuadere a pratiche sostenibili, la raccolta poco puntuale al vostro portone? servizio personalizzato, i traffici del malaffare? un brand innovativo.

Forse perché non è solo un esercizio allegorico acrobatico abbinare rifiuti urbani e rifiuti umani. Non può destare scandalo se non nei territori dell’ipocrisia perché altri territori: Napoli e larga parte della sua provincia e del Casertano, Palermo, Roma ormai, sono il contesto esemplare della pratica dello scarto incontrollato, di merci e umano, ma anche per il loro accumulo in forme che rendono sempre più difficile il ritorno alla "normalità". Il disordine ambientale procede insieme al disordine sociale e trasforma il nostro rapporto con le cose in un modello replicabile per il nostro rapporto con gli altri. Accumulare oggetti e roba che non ci servono e buttare via a casaccio tutto ciò che ci dà fastidio è un principio informatore della società e dell'economia in cui e di cui viviamo, nelle quali tutto è merce, telefonini, lavoratori, risorse. È l’ideologia dell’illimitatezza rapace e spensierata che ha guidato prima lo sviluppo industriale dell'Occidente e poi il processo di globalizzazione che investe il pianeta Terra: un modo d'essere e di pensare – l'impalcatura su cui si regge lo spirito dei tempi – che ci spinge, parallelamente, a non adoperarci per ridurre al minimo, cioè per prevenire, i problemi dell'emarginazione sociale e la produzione di scarti – anche quelli umani, ma a produrli e incrementarli sconsideratamente, irrazionalmente e incontrollatamente.

Anche le “soluzioni” finali al problema sono affini, alla fine di un percorso che volontariamente fa incancrenire le crisi fino a far percepire come augurabili le misure di emergenza, le leggi speciali, i commissari straordinari, le epurazioni implacabili, i roghi purificatori. Così da ritenere accettabili accomodamenti insensati: il falò edificante dell'inceneritore, la ricerca affannosa di siti e buchi, le eco balle, i depositi di inquinanti sotterrati o sempiternamente provvisori a cielo aperto vicino ai nostri più illustri reperti, a vigneti leggendari, a paesaggi e bellezze unici e preziosi, in un caos, istituzionale, organizzativo e normativo, prima ancora che ambientale, che favorisce poteri forti, alleanze opache, infiltrazioni criminali, l’egemonia di chi comanda anziché governare. Così come il fuoco catartico degli inceneritori, non saranno i roghi appiccati durante i “civili” pogrom ai campi nomadi – che sono in realtà suoli pregiati che fanno gola agli immobiliaristi, come non sono nomadi gli abitanti occasionali, “mobili” solo perché vengono continuamente cacciati via – così non saranno quegli incendi a "ripulire" le nostre città dalla loro sgradita presenza, come non basteranno i “ buchi” e le discariche infami e infamanti in cui conferire gli “stranieri”, gli altri da noi, respinti e rifiutati.
Non possiamo aspettarci che chi appunto vuole comandare senza governare, che chi rifiuta dialogo e conciliazione, che chi è al servizio di un’ideologia dell’accumulazione e del profitto, ostile all’interesse generale e proteso a quello privato, nemico dei diritti e custode di privilegi, una politica attenta alle cose e alle persone, indirizzata a risparmiare e a ridurre con la prevenzione e l’accoglienza, la produzione di rifiuti e i meccanismi dell'emarginazione, a ricevere e integrare nel ciclo ordinario delle nostre esistenze anche quello che ci è estraneo e ci preoccupa.

Non piacciono, a loro, i beni comuni e le garanzie, tutta roba costosa, tutti investimenti a lungo termine, preferiscono lo scippo, l’utile immediato. Non piacciono a loro la comunità solidale, le responsabilità solidali, le eque condivisioni di azioni e benefici. Alla raccolta differenziata, un servizio di vicinato che promuove il colloquio, la collaborazione, e che obbliga a favorire un lavoro qualificato, prediligono le grandi opere, gli impatti pesanti intorno ai quali circolano altrettanto grandi business, le grandi aziende come l’Hera, che dirige i suoi interessi nella finanza, nella borsa, nei grandi impianti (soprattutto gli inceneritori), in modo che poi tutto l’indotto sia attribuito in subappalti opachi, al precariato, alle clientele. Che tanto quello che vale per i rifiuti urbani va bene per tutti i servizi pubblici locali: gestione delle acque, trasporto e mobilità, distribuzione di gas ed energia elettrica, cultura, assistenza sociale.

Non piacciono, a loro, i diritti, si sa. Quelli di chi sta qui, di chi ci è nato, di chi ci arriva. Che sono diritti alla città, alla salute, all’ espressione del proprio pensiero e della propria opinione. Diritti alla bellezza, all’ambiente, al paesaggio, alla memoria di cosa siamo stati e di cosa abbiamo creato per sentirci capaci di farlo ancora. L’affronto recato a Villa Adriana che sembra condurre ineluttabilmente verso un indefinito prolungamento dell’emergenza Malagrotta fino a una inevitabile esplosione, è simbolico quanto i crolli di Pompei o della Domus Aurea a Roma, come l’oltraggio agli affreschi di Giotto, incunabolo di tutta la pittura occidentale europea, a pochissima distanza dai quali hanno iniziato a scavare le fondamenta per realizzare due torri enormi, quando in tutta la zona incide una falda acquifera che già penetra nei sotterranei della Cappella. E quanto la misura paradossale secondo la quale le grandi navi non si possono avvicinare a meno di 400 metri dalla costa, con l’eccezione di Venezia, il luogo più vulnerabile d’Italia.
Se penso a loro immagino che la loro religione dell’usa e getta che officiano applicandola a noi, al lavoro, alla costituzione, ai diritti, alla bellezza, alla conoscenza, renda la loro vita brutta, grigia e mediocre. Che non guardino la luna piena, che tanto l’hanno già vista, che non leggano poesie, che tanto non si mettono in mezzo a due fette di pane, che non gli piacciano gli altri, che tanto stanno bene solo tra affini e affiliati. Non compiangiamoli per la loro miseria pubblica a privata, meglio rifiutarli.

2 commenti:

  1. grazie! è magnificamente descritta la decadenza culturale in cui ci siamo tuffati

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  2. E che sono le migliaia di disoccupati, di pensionandi senza pensione, di precari lasciati sul lastrico, di gente che si spara o si sopprime come può se non materiale umano usa e getta?

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