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mercoledì 30 maggio 2012

Ricorda con rabbia


di Luisella Nuovo Floris

E vedendo le nuove generazioni, i venticinquenni di ora così diversi mi domando: che eredità abbiamo lasciato ai nostri figli?”

Penso al Signor G in questi giorni. Mi capita spesso, soprattutto nei momenti di sconforto. Penso a lui e lo immagino mentre scrive questo suo ultimo monologo con rabbia e sgomento. Sempre così avanti da sentirsi solo, ne sono certa.

”E’ sempre tempo di resistenza, magari ad altre cose. Allora perché al posto di esibire il nostro atteggiamento libertario, non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello sviluppo insensato. Perché invece di parlare di buoni e cattivi, non abbiamo alzato un muro contro la mano invisibile e spudorata del mercato. Perché avvertiamo l’appiattimento del consumo, ma continuiamo a comprare motorini ai nostri figli. Perché non ci siamo ribellati alla violenza dell’oggetto. Perché non abbiamo mai preso in considerazione parole come essenzialità.”

Ecco, perché?

Perché un genitore lavora tre quarti della sua giornata e, alla richiesta dei figli di una briciola del suo tempo ormai saturo e stressato oltre ogni dire, quantitativamente e qualitativamente senza spazi mentali e fisici, perché – dicevo - questo genitore risponde promettendo beni materiali? Perché abbiamo ovattato la nostra esistenza per non sentire l’assordante rumore esterno? Per quale strana maledizione ci assoggettiamo a una logica illogica senza ribellarci?

"Il mercato ci ringrazia."

E’ che l’universo è più clemente di quello che immaginiamo o forse semplicemente ha aspettato che implodessimo. Ormai manca poco.

Così un mondo con le priorità distorte che cerca di sopravvivere a se stesso rodendosi da dentro, sfugge alla fine fin tanto che ha “carne sulle sue ossa” da divorare. Poi muore, di fame. Come un’enorme bocca che fagocita prima il suo corpo e poi rotola su se stessa disperata perché non riesce a mangiarsi anche la testa che la ospita.

Noi siamo il corpo e non ci ribelliamo. Non lottiamo e non opponiamo una sana resistenza alle disuguaglianze, alla mala distribuzione di risorse, tempo, lavoro. Noi ci facciamo mangiare perché lo dice la bocca e la testa annuisce. Senza dolore.

”Ma quale dolore, ormai non sappiamo più cos’è il dolore”

La sottrazione delle parole è stata la nostra prima sconfitta. Non ci siamo opposti e queste ci sono state rubate, perdute per sempre, svuotate e riempite di nulla. Quel “nulla non identificabile che ci corrode”.

Poi hanno sostituito le priorità per poter distribuire a loro piacimento, e così lucrarci sopra, tempo e denaro e risorse creando sacche di povertà materiale cui contrapporre sacchetti di povertà mentale. E come s’impoverisce il cuore e la mente di un essere umano? Inducendo bisogni di cui non ha bisogno, convincendolo che il denaro è la salvezza, imbottendogli di bambagia l’esistenza affinché sia più docile e “molle” quando la bocca lo divorerà. Perché Orwell ci ha mostrato l’incubo di un occhio che osserva, ma sotto l’occhio, dopo l’occhio, ci sono fauci che sbranano.

"Eravamo nel 2000 o giù di lì. Praticamente ora."

E vorrei, davvero tanto, che il signor G prima di lasciarci soli abbia guardato più avanti e che la sua visione gli abbia restituito il sorriso. Vorrei poter credere che il suo ultimo pensiero sia stato il rammarico per la buona novella che non ci ha potuto recapitare. Lo vorrei perché resistere avrebbe nuovamente senso, perché il nulla non ha senso e noi siamo stanchi. Anche di arrabbiarci.

lunedì 28 maggio 2012

L'impero del rifiuto


di Anna Lombroso

Pare che della civiltà degli eccessi, pare che dell’età dell’opulenza ci sia rimasta come memoria, minaccia e monito una montagna di rifiuti. Proprio come il debito, pesa sulle nostre spalle adulte e anche su quelle dei neonati e perfino su quelle degli innocenti che stanno ancora nella mente di giove. Uniscono l’Europa, per una volta tutti uguali con almeno 513 chili a testa, gli italiani anche un po’ di più, 540 kg malgrado la diminuzione dei consumi.
Li odiamo: sono l'altra faccia della civiltà industrializzata, un vero e proprio mondo, complesso e simmetrico rispetto a quello delle merci, del quale rappresentano il lato oscuro. Sono l’esito fisiologico della progressiva produttività, della quale esemplarmente ricordano il destino effimero. Ne temiamo il contagio, forse perché rammentano la caducità, il deterioramento, la degenerazione, evocano il tabù che rifuggiamo e vogliamo rimuovere. Non vogliamo sapere come una risorsa, entità viventi si sono mutati in articoli e prodotti ordinatamente allineati sugli scaffali, non vogliamo conoscere la sequenza di fatiche e vite sofferte che quelle lavorazioni hanno comportato, non vogliamo preoccuparci di dove poi ne finiscano gli esuberanti e sgargianti involucri, gli avanzi che imputridiscono: quello che resta dei consumi lo rifiutiamo, in una parabola della vita e delle relazioni con noi stessi e gli altri, paradigmatica e vergognosa.

Insieme ai rifiuti se ne va una parte di noi, quel che rimane dei desideri, delle voglie, degli appetiti, di quel che indossiamo, usiamo, mangiamo, che ci sembrava potesse cambiarci l’aspetto, appagarci, migliorare l’esistenza. Non ci piace l’inevitabile condanna a guardare certi brandelli nel nostro immaginario e delle nostri vite trasformarsi in poltiglia maleodorante, evaporare in diossina: forse questo spiega le mobilitazioni potenti e radicali – peraltro sacrosante – contro discariche e inceneritori, a fronte di una più paciosa acquiescenza rispetto a opere faraoniche, con un formidabile impatto. E ancora di più decifra la riluttanza a effettuare la raccolta differenziata, accolta malvolentieri come una punizione, che ci obbliga a tenerci in casa gli scarti mentre vorremmo disfarcene spensieratamente, tanto che tiriamo giù il finestrino e svuotiamo il posacenere in strada, li lasciamo sull’Everest, li abbandoniamo sulle vie stellari percorse dei cosmonauti. Diventano oggetto di delicati eufemismi, lo spazzino? è un operatore ecologico, gli sporcaccioni? utenti da persuadere a pratiche sostenibili, la raccolta poco puntuale al vostro portone? servizio personalizzato, i traffici del malaffare? un brand innovativo.

Forse perché non è solo un esercizio allegorico acrobatico abbinare rifiuti urbani e rifiuti umani. Non può destare scandalo se non nei territori dell’ipocrisia perché altri territori: Napoli e larga parte della sua provincia e del Casertano, Palermo, Roma ormai, sono il contesto esemplare della pratica dello scarto incontrollato, di merci e umano, ma anche per il loro accumulo in forme che rendono sempre più difficile il ritorno alla "normalità". Il disordine ambientale procede insieme al disordine sociale e trasforma il nostro rapporto con le cose in un modello replicabile per il nostro rapporto con gli altri. Accumulare oggetti e roba che non ci servono e buttare via a casaccio tutto ciò che ci dà fastidio è un principio informatore della società e dell'economia in cui e di cui viviamo, nelle quali tutto è merce, telefonini, lavoratori, risorse. È l’ideologia dell’illimitatezza rapace e spensierata che ha guidato prima lo sviluppo industriale dell'Occidente e poi il processo di globalizzazione che investe il pianeta Terra: un modo d'essere e di pensare – l'impalcatura su cui si regge lo spirito dei tempi – che ci spinge, parallelamente, a non adoperarci per ridurre al minimo, cioè per prevenire, i problemi dell'emarginazione sociale e la produzione di scarti – anche quelli umani, ma a produrli e incrementarli sconsideratamente, irrazionalmente e incontrollatamente.

Anche le “soluzioni” finali al problema sono affini, alla fine di un percorso che volontariamente fa incancrenire le crisi fino a far percepire come augurabili le misure di emergenza, le leggi speciali, i commissari straordinari, le epurazioni implacabili, i roghi purificatori. Così da ritenere accettabili accomodamenti insensati: il falò edificante dell'inceneritore, la ricerca affannosa di siti e buchi, le eco balle, i depositi di inquinanti sotterrati o sempiternamente provvisori a cielo aperto vicino ai nostri più illustri reperti, a vigneti leggendari, a paesaggi e bellezze unici e preziosi, in un caos, istituzionale, organizzativo e normativo, prima ancora che ambientale, che favorisce poteri forti, alleanze opache, infiltrazioni criminali, l’egemonia di chi comanda anziché governare. Così come il fuoco catartico degli inceneritori, non saranno i roghi appiccati durante i “civili” pogrom ai campi nomadi – che sono in realtà suoli pregiati che fanno gola agli immobiliaristi, come non sono nomadi gli abitanti occasionali, “mobili” solo perché vengono continuamente cacciati via – così non saranno quegli incendi a "ripulire" le nostre città dalla loro sgradita presenza, come non basteranno i “ buchi” e le discariche infami e infamanti in cui conferire gli “stranieri”, gli altri da noi, respinti e rifiutati.
Non possiamo aspettarci che chi appunto vuole comandare senza governare, che chi rifiuta dialogo e conciliazione, che chi è al servizio di un’ideologia dell’accumulazione e del profitto, ostile all’interesse generale e proteso a quello privato, nemico dei diritti e custode di privilegi, una politica attenta alle cose e alle persone, indirizzata a risparmiare e a ridurre con la prevenzione e l’accoglienza, la produzione di rifiuti e i meccanismi dell'emarginazione, a ricevere e integrare nel ciclo ordinario delle nostre esistenze anche quello che ci è estraneo e ci preoccupa.

Non piacciono, a loro, i beni comuni e le garanzie, tutta roba costosa, tutti investimenti a lungo termine, preferiscono lo scippo, l’utile immediato. Non piacciono a loro la comunità solidale, le responsabilità solidali, le eque condivisioni di azioni e benefici. Alla raccolta differenziata, un servizio di vicinato che promuove il colloquio, la collaborazione, e che obbliga a favorire un lavoro qualificato, prediligono le grandi opere, gli impatti pesanti intorno ai quali circolano altrettanto grandi business, le grandi aziende come l’Hera, che dirige i suoi interessi nella finanza, nella borsa, nei grandi impianti (soprattutto gli inceneritori), in modo che poi tutto l’indotto sia attribuito in subappalti opachi, al precariato, alle clientele. Che tanto quello che vale per i rifiuti urbani va bene per tutti i servizi pubblici locali: gestione delle acque, trasporto e mobilità, distribuzione di gas ed energia elettrica, cultura, assistenza sociale.

Non piacciono, a loro, i diritti, si sa. Quelli di chi sta qui, di chi ci è nato, di chi ci arriva. Che sono diritti alla città, alla salute, all’ espressione del proprio pensiero e della propria opinione. Diritti alla bellezza, all’ambiente, al paesaggio, alla memoria di cosa siamo stati e di cosa abbiamo creato per sentirci capaci di farlo ancora. L’affronto recato a Villa Adriana che sembra condurre ineluttabilmente verso un indefinito prolungamento dell’emergenza Malagrotta fino a una inevitabile esplosione, è simbolico quanto i crolli di Pompei o della Domus Aurea a Roma, come l’oltraggio agli affreschi di Giotto, incunabolo di tutta la pittura occidentale europea, a pochissima distanza dai quali hanno iniziato a scavare le fondamenta per realizzare due torri enormi, quando in tutta la zona incide una falda acquifera che già penetra nei sotterranei della Cappella. E quanto la misura paradossale secondo la quale le grandi navi non si possono avvicinare a meno di 400 metri dalla costa, con l’eccezione di Venezia, il luogo più vulnerabile d’Italia.
Se penso a loro immagino che la loro religione dell’usa e getta che officiano applicandola a noi, al lavoro, alla costituzione, ai diritti, alla bellezza, alla conoscenza, renda la loro vita brutta, grigia e mediocre. Che non guardino la luna piena, che tanto l’hanno già vista, che non leggano poesie, che tanto non si mettono in mezzo a due fette di pane, che non gli piacciano gli altri, che tanto stanno bene solo tra affini e affiliati. Non compiangiamoli per la loro miseria pubblica a privata, meglio rifiutarli.

Montezemolo, il trapassato futuro


di Massimo Pizzoglio

Da fonti assolutamente confidenziali, siamo riusciti ad ottenere una copia del programma politico del futuro partito Italia Futura.
Luca Cordero di Montezemolo sostiene tra i suoi confidenti di averlo scritto di suo pugno, ma si vocifera che abbia collaborato un ghost writer inglese, già noto per aver sostenuto altre importanti candidature nei paesi anglofoni e di avere ottime entrature nei mercati emergenti, come quello indiano: tal Rudyard Kipling...

I.F.


I.F. Se riesci a conservare il controllo del Cda
quando tutti intorno a te lo perdono e te ne danno la colpa,
I.F. Se puoi avere fiducia in te stesso (solo guardandoti allo specchio)
quando tutti dubitano di te (e dagli torto),
ma prendi in considerazione anche i loro dubbi, per farti poi due risate.
I.F. Se sai aspettare che spariscano tutti i partiti senza stancarti dell'attesa,
o essendo calunniato, non ricambiare con calunnie, ma con querele,
o essendo odiato, non dare spazio all'odio,ma alla fredda vendetta,
senza tuttavia sembrare troppo buono (e fin lì non c'è problema),
né parlare troppo da saggio (e questo è più difficile);
I.F. Se puoi sognare, senza fare dei sogni i tuoi padroni;
I.F. Se puoi pensare, senza fare dei pensieri il tuo scopo,
I.F. Se sai incontrarti con Alfano e Casini
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
I.F. Se riesci a sopportare di sentire le cazzate che hai detto
distorte da imbroglioni che ne fanno una trappola per altri ingenui,
o guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte in una curva a Fiorano,
e piegarti a farle ricostruirle con strumenti usuranti.
I.F. Se puoi fare un solo mucchio di tutte le tue presidenze
e rischiarlo in un unico lancio di una Opa ostile,
e perdere, e ricominciare daccapo
senza mai fiatare una parola sulla tua perdita, ma raccontando un sacco di balle agli azionisti che ci hanno perso tutto.
I.F. Se sai costringere il tuo cuore, nervi, e polsi
a sorreggerti anche quando sono esausti,
e così resistere quando in te non c'è più nulla
tranne la coca che dice loro: "Resistete!"
I.F. Se riesci a parlare alle folle e conservare la faccia seria,
o passeggiare con i Re, senza perdere il contatto con i loro banchieri,
I.F. Se non possono ferirti né i nemici né gli amici affettuosi,
I.F. Se per te ogni persona conta un cazzo, ma mai troppo poco.
I.F. Se riesci a riempire ogni inesorabile minuto
dando valore a ognuno dei sessanta secondi,in euro e in dollari,
tua è l'Italia e tutto ciò che contiene,
e , cosa più importante,
sarai Presidente del Consiglio, bello mio!

giovedì 3 maggio 2012

Riprendiamoci la città


di Anna Lombroso

In questi giorni si parlato molto e in modo tragicamente commemorativo dei luoghi del lavoro, fabbriche abbandonate, edifici fisici e morali smantellati, uffici impolverati quanto certi principi, in paesi nei quali a non esserci più è proprio il lavoro, con le sue conquiste, con i suoi valori.
In questa guerra di annientamento condotta da chi vuole il primato dello scambio immateriale, del mercato più rapace, quello che terra di conquista la nostra speranza e di noi una merce svalutata da far circolare a prezzo scontato, ideali e diritti si potrebbero sopprimere perchè non sarebbero riconducibili a bisogni collettivi, consapevoli e condivisi, e soprattutto perché non ci sarebbe una classe, un partito, una moltitudine a rivendicarli, rappresentarli, difenderli. La lotta di classe sarebbe morta perché non ci sono più i contendenti, ridotta a uno stereotipo frusto e arcaico, un vecchiume, un residuato della rivoluzione industriale, in modo da dare legittimità alla cancellazione di quello che si è conquistato, in assenza di manifestazioni di massa attribuibili a un “ceto” o partiti di peso elettorale o parlamentare che per statuto o programma li testimonino e difendano e nemmeno dei “teatri” dove la protesta, la critica, la rivendicazione si rappresentano esemplarmente.

Eppure il luogo c’è, ben oltre la fabbrica svuotata e penalizzata, i call center avviliti e sconfitti, le sezioni scomparse o disilluse, i sindacati ricattati. È la città, l’abitare, la quantità e qualità dei suoi servizi, la città bene comune sempre meno riconosciuto anche da chi si interroga sul volto e i propositi di nuovi soggetti politici, come se fosse un tema aggiuntivo al lavoro un optional addirittura trascurabile, e non il luogo strategico e cruciale del conflitto sociale. E quindi della politica.
Qualche giorno fa, qui, (le grandi baraccopoli del futuro) ho cercato di raccontare la degenerazione aberrante delle scienze urbane in dottrine di ordine pubblico, alla ricerca di strumenti e modalità di controllo sociale laddove divampano sempre più disubbidienza, malessere, diffidenza, scontro, paura gli uni degli altri. Quando migrazioni, impoverimento dei molti a fronte di ricchezze sempre più inclusive e esclusive, ridisegnano il tessuto delle metropoli. Se Katrina e il suo passaggio distruttivo, ha cancellato i quartieri poveri, per ricreare magicamente e artificialmente una New Orleans con nuovi cittadini, wasp, puliti e ordinati come la nuova città. Quando alla topografia tradizionale di quartieri centrali e vecchie periferie, tra enclaves sempre più ristrette e consolidate fatiscenze, sorgono insediamenti informali, accozzaglie la cui provvisorietà minaccia continuità, quando accanto alle ville opulente sorgono come funghi velenosi gli slum, quando Los Angeles è diventata la capitale degli homeless del Primo Mondo, con più di centomila senzatetto e nelle nostre capitali a qualche metro fisico e distanze sociali siderali sorgono quartieri di carcasse d’auto, palazzi sventrati e senza vetri alle finestre, baracche e un’urbanistica estemporanea di lamiere e cartoni.
“Nulla è triste come questi immensi spostamenti di pietre per mano del dispotismo, al di fuori della spontaneità sociale”, lo scriveva negli ultimi anni dell’800 Louise-Auguste Blanqui nel denunciare la politica urbana del Barone Haussmann].

Non ci aspetta nessuna Bella Epoque e auguriamoci che non ci sorprendano due conflitti mondiali anche se quella in corso è decisamente una guerra. Con eserciti che infuocano le banlieues e Londra, le città del Nord Africa e tanti tanti posti per via di quella “guerra ai poveri” nella quale il proletariato e anche il sottoproletariato, sempre più vasti numericamente e morfologicamente, reindossano i panni della “classe pericolosa” nel suo manifestare e manifestarsi, stando stesa in un cartone, riempiendo le piazze, pulendo parabrezza, la cui forza-lavoro ridondante e frustrata rischia di diventare inesorabilmente disubbidienza, anomalia, esclusione e devianza. E la semplice presenza di una moltitudine scontenta e “eccedentaria” è divenuta un autentico incubo vivente per i pochi opulenti e per i ceti dirigenti. Mai come dopo la caduta di quello di Berlino si sono innalzati muri, potenziate polizie private, rese più sofisticate videosorveglianze, alimentate emergenze cui rispondere con diffuse repressioni intorno alle quali cresce il consenso dei troppi impauriti.

Si la città è il territorio del conflitto e della consapevolezza che circola sui temi della sanità e della giustizia, dell’immigrazione e del lavoro, dell’istruzione e delle carceri, dell’ambiente e dei beni culturali, della “proprietà” erosa per i molti e protetta per i pochi. Molte vertenze sono scoppiate ogni città e regione per contestare e scelte della dissennata politica territoriale del neoliberismo straccione e proporre indirizzi alternativi. I temi della difesa dei beni comuni e della vivibilità minacciata della deregulation, della riduzione dei rischi all’integrità fisica del territorio che frana ad ogni pioggia e a ogni passaggio di grande opera pubblica sono i terreni di una presa di coscienza dei diritti di tutti e non solo di quelli legati al lavoro, in una società contrassegnata dall’indefinita crescita quantitativa e dalla combinazione tossica di affarismo, personalizzazione e privatizzazione dell’interesse e dei beni generali, corruzione e infiltrazione criminale. La legislazione urbanistica è stata smantellata, le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori, fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. Oggi speculazione parassitaria dimostra di avere imposto il proprio dominio:
la cultura delle regole, un premier ha inserito nel suo programma il «padroni a casa propria» slogan che ha dato a leggi – mai contrastate negli anni dei governi di centro-sinistra – che hanno messo in crisi il governo pubblico del territorio. E che l’attuale governo riconferma con proterva ottusità, consolidando l’ipotesi di opere e infrastrutture al servizio del saccheggio e dell’immobilismo produttivo, con un asservimento ideologico a una crescita che oltre a lasciare macerie e svuotare le casse delle amministrazioni pubbliche, erodendo il welfare urbano, fa dell’abitare e della casa un privilegio dedicato a un ceto sempre più circoscritto.

Servono nuovi princìpi normativi: se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è ora di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate.
Il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, mediante le forme della partecipazione attiva che ci dobbiamo riprendere, ne sono i custodi e i garanti ché i beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto della proprietà privata.
Una telefonata venuta da fuori ha chiamato a capo del governo un “tecnico” che ha chiamato altri tecnici, che per decidere della moralizzazione della cosa pubblica hanno chiamato altri tecnici ancora che chiamano noi a denunciare le aree di crisi.
Io comincerei nelle città a contribuire alla conoscenza e alla benefica accumulazione di una massa critica di informazioni di servizio su quanto è avvenuto: abitazioni costruite e invendute, aree industriali dismesse, aree urbane prive delle più elementari opere di urbanizzazione. Per guardarsi intorno, capire, agire, riprendersi la città.