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martedì 10 gennaio 2012

Confortevole conformismo


di Anna Lombroso

In questi giorni alcuni lettori mi hanno redarguita: sarei una disfattista ammalata di quella patologia nazionale fatta di ipercritica, forse livore, certo scontentezza. E perentoriamente mi hanno chiesto di enumerare, cito, le persone che mi “vanno bene” e che stimo, aspettandosi forse che io risponda Hannah Arendt, Spinoza, Canetti, Trotsky, e molti altri irrimediabilmente morti.
Non mi piace vincere facile. E sarebbe troppo facile dire che siamo andati peggiorando in tutti i settori della società e che i cittadini della polis, tutti, non sono un granchè. Ma in realtà io stimo tantissima gente, oltre a Landini, Canfora, Marino, Bianconi, Ruffolo, Urbinati, Revelli, Rusconi, tanto per citare alcuni visibili. Ma per la maggior parte si tratta di mediaticamente invisibili, persone che non hanno una tribuna dalla quale esprimersi, gente come me, il cui nome non direbbe niente ai miei “critici”, uomini e donne che lavorano, leggono qualche giornale, si arrabbiano, raccolgono firme per i referendum pur sospettando che vengano poi vanificati, fanno la raccolta differenziata malgrado poi gli operatori ecologici infilino tutta la monnezza nella stessa macina avida e indifferente, prendono l’autobus, fanno la fila alla Asl, sono furenti con Equitalia ma ciononostante pagano le tasse e qualche volta anche pretendono la fattura dall’empio idraulico o dal tassista, nemico numero 1 della società. E vivono male l’esclusione non sempre volontaria della politica. Loro e io viviamo in un cono d’ombra, quello di chi appartiene a quella che dovrebbe chiamarsi società civile e che è sempre meno sociale e sempre meno civile, se civile vuol dire essere cittadini della polis partecipi e gratificati di contribuire individualmente al bene comune.

E non c’è da credere a quelli che - illuminati dall’occhio di bue della popolarità e della visibilità che ormai ha preso il posto della reputazione – dicono che la società civile è la loro, quella che loro rappresentano, disillusa, rancorosa, appiattita nel conformismo, un’opinione pubblica che non ha opinioni se non quella di preferire una politica invisibile che amministra l’andamento generale appartata e autoritaria, mentre noi ci dedichiamo ai nostri affarucci di sopravvivenza, quotidianità, egoismo.
Io non credo che siamo così, credo che chi ritiene di testimoniare a mezzo stampa o tribuna politica o conferenza stampa o decreto legge un senso comune remissivo e favorevole a delegare tutto compresa la propria rovina, ci voglia così. Perché è più facile e produttivo governare una plebe anestetizzata dal nuovo bisogno e annichilita dalla scoperta di nuove privazioni dopo l’ubriacatura dei consumi e dell’accumulazione, nutrendo la paura e la diffidenza, favorendo l’istinto non poi tanto represso alla licenza, all’irregolarità, alla corrutela, al ricatto e alla soggezione al ricatto, in nome del mantenimento di piccoli miserabili privilegi in sostituzione di diritti e dignità.

La loro idea, estrema e spettacolare, della società civile e della politica sono terrificanti, dominate dalla potenza sopraffattrice, nelle relazioni tra i popoli e tra parte e parte, tra i dominatori e gli oppressi, all'interno dei popoli, e dall'uso di categorie primordiali: fedeltà e diffidenza, amore e odio, per dividere il campo dell'agone politico, in una concezione della civilizzazione basata sulla malevolenza tra gli esseri umani.
Si in effetti ho stima di Arendt, putroppo defunta, quando dice che la politica è l'essere collocata infra, in mezzo, tra le persone, che la virtù democratica è propria di coloro che amano stare "con" le altre persone, non "sopra", nemmeno "accanto" o, peggio, "altrove"; di coloro che conducono la loro vita insieme a quella degli uomini e delle donne comuni, stando dentro le relazioni personali e di gruppo, quelle relazioni che, nel loro insieme, fanno, di una semplice somma d'individui, una società.
Mentre spesso viene attribuita una leadership “morale”, autoritaria ed egemonica, a cuori che battono per i salotti, le accademie, le fondazioni culturali, le tavole rotonde, gli studi televisivi. Per secoli, democrazia è stata l’utopia degli esclusi dal potere per contestare l´autocrazia dei potenti; ora è diventata l´ostentazione dei nuovi potentati per rivestire benevolmente la propria supremazia.
E è così che presso la gente comune, non ci sarà un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche, ma si auto alimenta un accantonamento, un fastidio diffuso, un disincanto che diventa un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca del ceto politico sgangherato o sobrio che sia , rappresentano ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni, come in una reazione anti-retorica alla retorica democratica.
Il "tanto sono tutti uguali” è il tremendo slogan della perdita, di valori, di etica, di riconoscimento nella cittadinanza, nel quale si identificano quelli che considerano la democrazia una vuota rappresentazione o l´occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi, prima e ancora oggi, con l’adesione entusiastica al contesto mediatico dei nuovi padroni, una "teatrocrazia" cui di guarda con scetticismo o rassegnazione.

Ieri il ceto politico, quello più distante dalla vita della gente comune, che disprezzava, faceva a gara nel dar prova di atteggiamenti populistici e volgari, per far mostra d'essere uguali agli altri, "uno di loro". Oggi il potere sostitutivo della politica ancora più autocratico e oligarchici, esalta una schizzinosa e spocchiosa separazione che, nel caso migliore, si traduce in indifferenza, in quello peggiore, in inimicizia e avversione. Una classe separata appunto che entrata nei luoghi del governo dopo essere cresciuta in quelli contigui, ritiene di aver acquisito il diritto di non uscirne mai più, fino a quando provveda la natura. Con una riconferma dell’organizzazione per caste, stratificazioni sociali di appartenenza per nascita, appartenenza o fidelizzazione, trasmissione ereditaria o censo. Un mondo sclerotico per il quale chi è fuori è un pericolo, un’insidia da avvilire con stenti e la privazione di parola e diritti.

Eppure sia pur separata, frustrata, adirata, marginalizzata quella “società civile” esiste. Non ha nulla a che fare con i salotti e le enclave anche televisive dove s'incontrano quelli che presumono d'essere élite del Paese e si auto-investono di compiti salvifici, lobby più o meno esplicite e gruppi d'interesse settoriale che curano i propri affari, legalmente e talora anche illegalmente tramite corruzione o collusione.
Parlo dei miei “amici”, l'insieme delle persone, delle aggregazioni di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l'utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Persone, individui soli o insieme ad altri, disposti a dare qualcosa di sé, per figli e nipoti anche non “loro”, perché sono innamorati della bellezza, del sapere, del paesaggio intorno, della vita. Che hanno scoperto che cosa conta: contare, con le opere, con il pensiero, con la critica, che si ostinano a considerare non uno sterile e amaro trastullo, ma un diritto e un dovere.
Mi viene da ricordare ancora una volta la frase dell'abate Siéyès con la quale inizia "Che cos'è il terzo stato", un proclama sull’autocoscienza dei cittadini: "Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cos'è stato finora nell'ordinamento politico? Niente. Che cosa domanda? Diventare qualcosa". Appeso al muro il Quarto Stato, oggi sempre più umiliato, riprendiamo quel senso, diventiamo "qualcuno".

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