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martedì 18 ottobre 2011

Zanzotto, il ribelle gentile


di Anna Lombroso


Cenacolo a volte deriva davvero da cena e che cene e che cenacoli erano quelli. Nella cucina col fogher o in salotto, tanta gente, “foresti” o anche gente dei dintorni, della dolce ansa del Soligo, mossa e verde, entourage di Lacan, giovani enigmatici poeti ermetici parigini, sofisticati critici newyorchesi, qualche principe contadino del Montello, magari Neri Pozza che borbottava dentro al barbone o el dotor, ammesso solo a condizione che non impedisse agli ospiti de bevar e de magnar e la Marisa che si agitava portando piatti di funghi, taglieri di polenta e il montasio e l’asiago e il salame nostran, quelo con l’ajo, che fa ben e tine lontani quei folletti dispettosi che girano nella mezza montagna.

Grandi discussioni. Ci aveva rovinato la moda del Mozart, figurarse, tutti a comprare Marzemino e quanto Marzemino volete che si produca? Xe come il lardo de Colonnata, bofonchiava Neri. Le mode sono la rovina del mondo, tutto vogliono comprare tutto, bere tutto, mangiare tutto, andare dappertutto. Ma poi il mondo prima o poi si ribella, adirato ma sussurrante diceva Andrea, che della difesa di quel territorio così dolce e mansueto aveva fatto una sua guerra. Venezia si ribellerà: dea dei sostegni di chiese e palazzi dea dei tronchi che ci reggono saldi, dea delle onde.. l’aveva amata Venezia la schizzinosa senza le cautele di quelli di campagna, senza la risentita ribellione di quelli di terraferma. Ce l’aveva guidato per mano Diego Valeri nei suoi itinerari sentimentali, via per caligini da palude, dentro ale “fodre” quelle scorciatoie che allungano il cammino nel labirinto di calli, via via tra i muti alti finchè magnificamente e sorprendentemente sembrava che il cielo confinato si spalancasse su certe nuvole gonfie. Gli piaceva che gli raccontassi la leggenda di San Marco a Boccalama, una originaria Serenissima minacciata di sprofondare che gli abitanti provarono a salvare invano ancorandola a due barconi. Faceva i disegni dell’improbabile opera ingegneristica, altro che MOSE, le cime legate ai bragozzi con le belle vele latine colorate a tener su la città.

Andrea Zanzotto e Mario Luzi alla scoperta di Venezia
Non gli piaceva l’affondamento catartico auspicato dell’immaginario collettivo E non gli piaceva quel passaggio da metropoli dei luoghi e degli abitanti della letteratura a desiderata necropoli. Semmai gli piaceva la Venezia di Guardi, che riproduce il movimento,la gioia effimera profetica di morte dell’attimo fuggente, quelle moltitudini di persone, che in un brulicare, trasportate dall’istinto e dalla passione si riversano vacillanti in una delirante autodissoluzione ebbra e sconsiderata. Quelle figure che aveva rirovato nel Casanova di Fellini e che gli avevano ispirato quel “varda padrona questo stracci, questi bracci, guarda tra gli ori sti poveracci, tirati su datti da fare per farci fruttare, fruti dapartuto per tera e per mar”.

Come succede a quelli che sembrano destinati a morir giovani, sopravvissuti a sorelle e fratelli, quelli un po’ macilenti che per fortuna l’esercito non li vuole e hanno l’asma e la tosse e sono esili e hanno sempre freddo, mangiava frugalmente ma il cibo gli piaceva e gli piaceva la buona tavola e le ricette di venezia, l’agrodolce, l’uvetta, le spezie portate da lontano, la cipolla “svampia”, come nel saòr, messo a coprire le sarde o la verdura fritta, per mantenerle, così efficace che fu usato per conservare il corpo del vescovo di Torcello, destinato a essere sepolto in San Marco, per tutto il tempo in cui una tempesta rese impossibile il trasporto dall’isola. Così si faceva raccontare queste storie di cucina, cucine come quelle dell’ottuagenario, fumose, con la lecarda e lo spiedo, con lunghe cotture crudeli. È che gli piacevano le storie intorno al fuoco, anche quelle di paura, di fantasmi, le ombre inquietanti che si muovono come in Gogol e certi spettri dentro di noi come in Holderlin. Ma alla sua integra e giocosa innocenza piacevano le favole, le filastrocche, le nenie, oh le nenie soprattutto e magari l’avessero fatto addormentare lui sempre in guerra con l’insonnia, le rime impreviste e casuali, le cantilene anche le preghiere, il rosario recitato a mezza voce, al crepuscolo, anche il requiem che raccontava di salmodiare la sera sperando di prender sonno, come una cara memoria infantile.

Aveva sempre freddo Andrea, si teneva spesso il gatto, un gatto dei tanti che popolavano la sua vita, sulle ginocchia. Ne aveva amato uno spavaldo perché lo aveva ammansito con gli anni e persuaso a volte a stare raggomitolato vicino a lui. Si aveva freddo ma non gli ho mai visto un vero cappotto ma strati su strati di golf sulle spalle gracili, dei bei golf che immaginavi gli avessero confezionato le donne preziose della sua vita. Donne ridenti e determinate, dolci e tenaci, la zia fumatrice che gli aveva dischiuso le meraviglie della lettura cominciando dai fumetti, le sorelle perdute troppo presto, le maestre che gli avevano rivelato il sortilegio del teatro, la Marisa, compagna, musa, sostegno e isola, cuoca e segretaria, sempre teneramente affaccendata e vigile che oggi improvvisamente avrà un tremendo tempo libero e si guarderà intorno smarrita carezzando un gatto anche lui solo.

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