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giovedì 8 settembre 2011

Prendere a calcio la civiltà


di Anna Lombroso

Non ho una squadra del cuore salvo una certa simpatia da zingara bene accolta per la Roma, tanto che in occasione di uno scudetto aiutai il mio amico Zaccagnini a tinteggiare di giallorosso la gradinata di via dei querceti.
Considero i calciatori uno dei prodotti, ahimè poco effimeri – giocano fino a età imprecisate – della società del consumismo, del narcisismo, della mediatizzazione e della mercatizzazioni dei corpi e delle loro prestazioni. Insomma li considero né più né meno alla stregua delle veline, con buona pace di senonoraquando. Quarti di bue un po’ più dinamici magari visto che le loro performance avvengono su un campo e non su un letto, ma altrettanto inespressivi di pensiero e civiltà.

All’indifferenza è subentrato un entusiasta odio di classe in occasione dei recenti avvenimenti. E comunque, da quando avevamo un premier bi-presidente, che gestisce paese e squadra come due proprietà, dall’una prende e all’altra dà, nel pieno esercizio della sua perversione commerciale, beh il calcio proprio mi è odioso, come mi succede con i vari “oppio dei popoli” e gli svariati anestetici di massa. Alle ore 11 del giorno 8 settembre il monitoraggio permanente che effettuo sulla manovra mi rivela che il contributo di solidarietà per sovramilionari del pallone è stato mantenuto, o ripristinato, o messo là ma non si sa, e certo sarà un duro colpo per chi ha avuto ingaggi da 18 milioni, dieci milioni, otto milioni, cifre che mi fanno venire in mente un gioco che si faceva da ragazzi: che valigia serve per contenere certi malloppi? certe mazzette? certe evasioni?

È che il calcio è diventato un affare di Stato, perfino “concordatario”. Sono andata a riguardarmi un alato scritto dell’attuale pontefice, “il gioco e la vita” che risale a quando era arcivescovo di Monaco di Baviera, e nel quale Ratzinger con entusiasmo spericolato si riferisce ai mondiali di calcio come a un evento ecumenico e mistico di massa, capace di avvicinare alla divinità e alla salvezza.
Anche senza voler menzionare l’Heisel già cinicamente consumato da Veltroni, gli episodi di violenza negli stadi, il passaggio repentino da abatini ad ultras, ma soprattutto la potente oscura scellerata circolazione di denaro visibile e opaco tra ingaggi e scommesse, a tutto farebbero pensare salvo a quello che il Papa definisce un esercizio che trascende la vita umana rivelandone la libertà e il connesso anelito a spingersi verso l’alto e il Paradiso che abbiamo perduto. E infatti i mondiali che coinvolgono milioni e milioni di persone, rappresentano un evento senza pari e con tali ripercussioni da dimostrare che si sta toccando qualcosa di profondamente umano. Dal calcio impareremmo la cooperazione disciplinata e un affrontamento onesto, nientepopodimeno. Certo sarebbe meglio non farlo sapere al presidente del Milan e soprattutto al presidente del Consiglio che secondo il suo partner privilegiato per quanto riguarda oscurantismo e invasività aberrante nelle vite e nelle convinzioni dei cittadini, il calcio insegna ad armonizzare la vita con le regole e fa capire che la libertà vive nelle regole, una materia insomma che al premier piace ben poco, attrezzatura ideale per arcaici, sfigati comunisti.

Altro che trascendenza, la verità è che invece il calcio è da anni sempre mento un gioco e sempre più un affare adatto a questi tempi di accumulazione, profitto, competitività, esibizionismo, spregiudicatezza. E voyeurismo, se lo sport come molte altre pratiche contemporanee è ormai qualcosa da vedere più che da esercitare, cui si partecipa seduti, sempre meno allo stadio e sempre più davanti a sky, immersi in una utenza solipsistica e rancorosa, con la squadra che non soddisfa le aspettative, con gli altri, che tifano per altre società e diventano inesorabilmente ostili, antagonisti, nemici. Siamo a guardare da marginali una gigantesca macchina consumistica che assume sempre di più un significato politico, mobilita quattrini, suscita consenso e dissenso e smuove un immaginario formidabile e fragile, cruento e docile alla persuasione.
Il tifo è una di quelle passioni tristi delle quali aveva paura Spinoza, perché generano sopraffazione, tirannide e ubbidienza. Alimenta affiliazione cieca - la squadra non si discute, è un credo - irride al rispetto degli avversari, disprezza regole condivise, produce identificazioni in miti e modelli discutibili se non negativi, legati al facile arricchimento, a carriere effimere che non prevedono studio bellezza e conoscenza e che gravitano intorno ad ambienti altrettanto mediocri, nei quali il primato va al corpo e alle sue performance, al denaro che lo può comprare al Gallia o a Arcore, a consumi dissipati di beni inutili.

Non è moralismo dire che il gioco - che dovrebbe indirizzare alla qualità delle relazioni, alla bellezza creativa e gioiosa della fantasia, del ridere, del vincere in compagnia con altri e del sorridere se si perde, della confidenza e della fiducia in una “squadra” e del riconoscimento che viene quando il branco non è animale ma umano – ecco, si, così il gioco non ha più nulla di morale, nulla di civile, e ripropone come in un triste copione la crudezza dell’esistenza, le disillusioni, le sconfitte che dovrebbe farci dimenticare. Avremo meno pane, i circenses non sono più quelli di un tempo. Forse è venuto il momento di fare il tifo per la squarda del cuore, quelle dei diritti, della politica e della libertà.

1 commento:

  1. Solo Ratzy poteva vedere qualcosa di trascendente nel calcio di oggi, fuori dal mondo!

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