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mercoledì 14 settembre 2011

Berlusconi a tavola


Di Alberto Capece Minutolo

Dei gusti culinari di Berlusconi sappiamo poco: a parte l'avversione per l'aglio che farebbe supporre anche quella per i paletti di legno, non ci sono che le evasive e brevi parole dei suoi commensali durante gli anni dell'avvento e del regno. A detta di tutti una cucina scialba di idee e di sapori, con scelta di vini mediocri e inappropriati. E così mentre attorno alla sua figura è nata una variopinta trattoria di incontri, patti, compromessi abboccamenti all'insegna della crostata e del risotto, proprio lui ,il Cavaliere attorno al quale tutto questo si svolgeva, è rimasto estraneo alle espressioni inconsce di bulimia del potere.
Certo non per mancanza di mezzi o di quella prorompente generosità che lo spinge ad aiutare tante famiglie e ragazze in difficoltà, ma evidentemente per mancanza di golosità, di attrazione verso il cibo, di appeal per i sapori: con lui i segreti legami tra cibo ed eros perdono di senso lasciando il posto a quello molto più  pretestuoso e sfacciatamente strumentale fra cene e sesso a pagamento.

Tutto questo potrebbe anche non attirare l'attenzione, ma è in realtà molto strano perché il cibo viene universalmente usato per soddisfare bisogni interni e personali oppure per produrre impressione sugli altri, mentre le mense di Silvio sembrano fatte apposta per non regalare piacere all'anfitrione, né a colpire gli altri: le paste dimesse, le cotolettine con patate, le capresi da bar, sia pure preparate da cuochi esperti, oltre che appassionati di talk show, sono la negazione stessa dello splendore delle mense come instrumentum regni. Sappiamo anche che il rapporto con il cibo esprime e definisce molti lati della personalità: come dice Leon Rappoport in un delizioso, ma rigoroso saggio del 2003, "Come mangiamo" le maniere di stare a tavola, i nostri gusti, la quantità di cibo assunto sono comportamenti espressivi collegabili direttamente a determinati tratti caratteriali. Il cibo richiama le radici dell’identità, orienta il senso dell’appartenenza, contribuisce a definire l’immagine di Sé; dentro al nostro piatto troviamo valori, idee, convinzioni, rappresentazioni che ci segnalano e segnalano agli altri chi siamo e chi sono gli altri; il cibo può costituire cioè un elemento di identificazione e di distinzione che struttura l’interpretazione di Sé e del mondo circostante.

Dunque le cene di Berlusconi cosa ci dicono di lui? Da quale capo possiamo cominciare a svolgere il gomitolo? Due caratteristiche ci possono mettere sulla strada. La prima è che a detta di chi ha avuto l'onere e l'onore di sedere alla sua tavola sostiene che al contrario degli altri piatti, i dolci sono di solito più curati e ricercati e questo forse può essere interpretato come un elemento che rimanda all'infanzia. L'altra è che i piatti serviti fanno tutti parte della cucina tradizionale, casalinga quasi e non si spingono mai a sondare novità o strade diverse. E questo fa parte di un atteggiamento di base: ci sono persone che manifestano curiosità, desiderio di conoscenza e ampia capacità di adattamento nel gustare alimenti non ancora sperimentati, altre manifestano invece diffidenza, allontanamento, fuga e ostinazione nel non accostarsi a cibi e cucine non conosciute. Alcune persone sono molto più spaventate quando sono costrette a separarsi, anche per poco, dalle loro abitudini. Il cibo e il modo di alimentarsi si riferiscono a teatri psico-affettivi che prevalgono sul gusto inteso come sapore e libertà sensoriale. Sono aspetti studiati dalla psicologia e persino dalla sociologia.

In più uno studio condotto qualche anno fa dall'istituto di Psicologia del'Università di Bologna ha rivelato che le persone più impaurite dalle novità e diversità alimentari sono quelle che hanno i gusti più vicini a quelli dei loro genitori e soprattutto a quello delle madri, mentre quelle culinariamente più avventurose sono maggiormente distanti dall'ambiente materno e familiare in genere.

Straordinariamente questo corrisponde alla politica berlusconiana: un collage immutabile di orientamenti, pregiudizi e discorsi di comodo della media borghesia del nord negli anni a cavallo della guerra, Un mondo che ha mai trovato una vera elaborazione, uno sviluppo originale, un ripensamento o una ricerca ma si è cristallizzato allo stesso modo nel quale le cene eleganti non si rinnovano mai nel tempo. La libertà, intesa come insofferenza delle regole e il rifiuto ossessivo di qualsiasi istanza realmente sociale sostituita con il consenso, l'ossessione persino ridicola di etichettare l'estraneo, il nemico come comunista, sono il correlativo oggettivo della cotoletta, come se fossero inscindibili i discorsi paterni da dirigente bancario del dopoguerra con il cibo che nel frattempo veniva consumato alla luce di quelle lampadine da 40 watt buone a creare le ombre più che la luce.

Si, ma come la mettiamo con il ruolo di anfitrione che deve dimostrare la sua potenza e la sua larghezza? Anche qui non è difficile: nel momento in cui il cibo diventa quasi ritualmente testimone di un appartenenza e di un mondo, la "regalità" assume i caratteri dell'imposizione: se mi sei amico e fedele devi non solo pensare come me, ma anche mangiare come me. Ritornando al dolce è evidente che in questo s'insinua un carattere ancora infantile che stenta a riconoscere gli "altri" se non come appendici di sé.
E a pensarci bene anche quella inesplicabile passione coltivata per L'elogio della follia" di Erasmo da Rotterdam trova una soluzione: perché la follia non è interpretata come una radicale diversità, ma semplicemente come avventura dell'affermazione personale: qualcosa che ha bisogno di portarsi dietro tutta l'arca di convinzioni, di abitudini e persino ricette come una sorta di protezione a una costruzione umana poco consistente.

Forse non c'era bisogno di questo excursus per dedurne che Berlusconi è una persona potenzialmente pericolosa avendo trasferito il senso morale e la stessa socialità dentro un complesso di abitudini e di movenze quasi autistiche. C'è in tutto questo come una sorta di anoressia che non riguarda la quantità degli alimenti, quanto una sana libertà sensoriale. Come se il cibo intenso e vario potesse essere un pericolo,una estrusione dal proprio mondo, l'inizio di una dipendenza. Un reprimersi morboso dunque che invece viene apparentemente riscattato nel sesso, praticato con grande variabilità di persone e circostanze: in questo l'anoressia sensoriale cambia di segno e lascia posto a una bulimia sconsiderata, che tuttavia non viene metabolizzata né emotivamente, né sentimentalmente in quanto gli "oggetti" sono in uso temporaneo e vengono "rigettati" dopo la doccia.

Insomma paradossalmente per Silvio è più facile mettere le mani addosso alla nipote di Moubarak che abbandonarsi a gustare il cous cous. Così come gli è stato facile mettere le mani addosso al Paese, illudendolo con qualche bustarella politica piuttosto che tentare di capirne e di secondarne le trasformazioni, cosa che del resto gli sarebbe stata impossibile.  Forse non siamo esattamente ciò che mangiamo, come sosteneva Fueuerbach e tuttavia così come per il bruco la foglia di gelso è l'infinito, così la cotoletta con patate o le tagliatelle ai funghi porcini che più porcini non si può, possono esser l'infinito culinario di un uomo minimo.

Piccola bibliografia con contorno

Bourdieu P. (1979), La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983.

Breen F.M., Plomin R. e Wardle J. (2006), Heritability of food preferences in young children, «Physiology and Behavior», 88, 4-5, pp. 443-447.

Müller K.E. (2003), Piccola etnologia del mangiare e del bere, Bologna, Il Mulino, 2005.

Rappoport L. (2003), Come mangiamo. Appetito, cultura e psicologia del cibo, Milano, Ponte alle Grazie.

Pani R. e Sagliaschi, S. (2006), Questionario sulle preferenze alimentari, questionario non pubblicato, Dipartimento di Psicologia, Alma Mater Studiorum Università di Bologna.

Pani R. e Sagliaschi S. (2010), Psicologia del gusto e delle preferenze alimentari. Rigida ostinazione o possibile apertura al nuovo?, Torino, Utet.

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