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lunedì 29 agosto 2011

Gli ultimi della class

di Anna Lombroso

Una volta quando c'erano scompartimenti di velluto teatro di conversazioni che oggi si svolgono con febbrile irruenza su Fb, succedeva di trovare abbandonati sul sedile la Domenica del Corriere, Gente coi ritratti di dinastie ex regnanti in vita solo a quello scopo, Oggi che nemmeno so se esista ancora.  Li chiamavano rotocalchi. A volte restavano sulle ginocchia delle signore che si consegnavano  a conversazioni confidenziali, oppure  di signori che inevitabilmente finivano per dire che una volta si i treni arrivavano in orario.  I modelli che proponevano avevano una forte carica morale, ricchi ma solidali, nobili ma “democratici”, eleganti ma sobri, belle ma pudiche.

Si tutto allora era più domestico, più ingenuo. Non c’è da averne gran nostalgia, ma certo tutto si è degradato e un certo rovinoso precipitare nella società dell’egoismo, dell’emulazione del peggio e dell’irrisione dl buono, dell’estetica di regime al posto della bellezza, dei cartelloni pubblicitari patinati che coprono belle e severe facciate, lo fari cominciare proprio come Berardinelli, con Class. A cominciare dal nome: Class. C’è stato un susseguirsi di generazioni per le quali classe significava lotta e affrancamento, diritti e conquiste, sopraffazione e redenzione. Altro che la classe non è acqua di rentier, arrivisti, ridicoli imitatori che chi sta un gradino più su a cominciare dall’orologio sopra al polsino, dal colletto della maglietta tirato su, come nella mutazione di un linguaggio simbolico, quello del rampantismo, della spregiudicatezza. E'cominciato così un processo che ha stabilito il primato del rito della partecipazione, più azionaria che democratica sull’esercizio della coscienza critica. Si costruiva l’Italian Style, l’immagine, perché l’immagine era tutto, della nuova classe, appunto, dirigente. Attraverso lo stile ci si ripuliva fino a sentirsi parte di una cerchia, ma dalla quale di fatto si restava esclusi, perché avevi  voglia tu di vestirti da manager invece che con gli abiti un po’ stazzonati e informi della nomenclatura: se potevi diventare un grigio politico magari un po’ più vaporoso per via delle truccatrici di tribuna politica, la classe dirigente restava inaccessibile, perché era – ed è - ancora quella delle famiglie, delle dinastie regnanti sull’industria e gli affari, carica di aura, di mito, di effetti ipnotici, che guardava con schizzinosa alterigia la scomposta ostentazione degli aspiranti.

Si preparava il tempo del sopravvento della pubblicità sulla politica, dello spettacolo sulla realtà, della narrazione sulla verità, della decisione autoritaria sulla democrazia, del denaro e del profitto sopra tutto. Il tempo dell’Omino di Burro che doveva portarci tutti nel bel paese se salivamo sul suo carro. E con lui definitivamente veniva ammessa anzi premiata come una virtù la volgarità, la passività, in un vero e proprio genocidio culturale, che si fa beffe del pensiero, della tradizione, salvo quella padana, della  memoria, di quella pluralità di culture regionali, di classe, di minoranze che avevano caratterizzato il paese per secoli e che nemmeno il fascismo era riuscito a distruggere..e nemmeno Gente o Oggi. Sostituite da un’altra “cultura”, quella dei comportamenti trasgressivi  concentrati in forma criminale nei fenomeni mafiosi diffusi in via omeopatica ben tollerata in tutto il paese, quella del familismo che ha svilito i legami di solidarietà, del localismo, del corporativismo, dell’autodifesa aggressiva delle tribù e dei clan. Confermando l’opinione che sembra essere l’unica cosa pubblica rimasta, che per condurre un’esistenza nella “norma” dell’anomalia, bisogna essere anormalmente attenti, diffidenti e furbi, il prezzo da pagare senza troppi danni per sé e ai danni di qualcun altro in una società senza regole ne’ leggi. Politica e cultura ci si chiudono intorno come un orizzonte di fatalità, dal quale difendersi pena la marginalità. Sospetto che ci siano responsabilità gravi in chi con le ideologie -   in nome di un liberismo che nel costume, nella percezione, della conoscenza e nell’informazione – ha buttato anche la vecchia Kulturkritik. Se prima si vedeva una sotto-cultura quella di Gente e Oggi, magari, facilmente identificabile, adesso giornali e riviste e cinema e satira non ci propongono l’intrattenimento evasivo che inganna le masse, ma contribuiscono all’involuzione della funzione critica, la massificazione e l’usura della cosiddetta “alta cultura”.

Per carità non sono così snob da non considerare positivo che la Buton abbia fatto risuonare nelle orecchie e nelle teste un po’ di Mozart, ma mi inquieta che alcune èlite che praticavano la cosiddetta critica dell’ideologia, per coscienza politica o superbia, abbiano perduto il loro punto di osservazione, per distacco, disillusione, fatica, repulsione. Hanno tolto agli italiani il complesso della cultura certamente, proprio come la Vecchia Romagna, con affabile democraticità, li hanno emancipati dalla timidezza e dalla inadeguatezza, con gli apriti sesamo del Nome della Rosa, del paginone di Repubblica, ma li condanna alla denuncia, alla recriminazione, all’invettiva, oggi allo sdegno, per dare loro la visione di un ideale progressistico-edificante. E di quello ci si appaga, di quella appartenenza , di quella collocazione nel crocevia di tutte le strade principali dell’opinione pubblica, così rassicurante che ci fa credere di vivere già nel mondo che vorremmo. Beh non è così, sia pure nel club esclusivo di quelli per bene, non siamo esenti dal fango,  dall’anomalia, dall’inciviltà. Altro che Oggi e Gente, altro che Class. In treno ho visto abbandonato l’ultimo esemplare del genere: Vanity Fair, perfetto per la freccia rossa e anche per il coiffeur degli emancipati. Ma io vorrei   vorrei i Quaderni Piacentini, vorrei Quindici, vorrei il Ponte, vorrei Aut Aut che nel primo numero aveva un editoriale che ammoniva: se scegliete la libertà, sappiate, poi non si può tornare indietro. Si vorrei che ci prendessimo per mano e scegliessimo la libertà

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